Arpa celtica

L’arpa celtica in Italia

Sono stato invitato ad esporre il mio punto di vista sull’insegnamento dell’arpa celtica (e mi riferisco principalmente alla situazione italiana), e lo faccio di buon grado. Anzi, credo che questa sia un’occasione importante per chiarire quella che è la mia visione del problema. Ripeto, mia visione, quindi non dogma ma convinzione nata dall’esperienza di ricercatore, di didatta e di esecutore.

I miei studi in Conservatorio sono durati 14 anni, e sono stati un’esperienza preziosa e ricca. Non rinnego niente, anzi faccio ogni giorno tesoro di quello che mi è stato insegnato dai docenti che ho avuto la fortuna di incontrare. Nel pieno della mia nascente carriera di solista e di direttore d’orchestra ho sentito il bisogno impellente di dare una svolta alla mia vocazione musicale, ed all’età di trent’anni ho ricominciato da zero seguendo un percorso totalmente nuovo in un campo che in Italia era non praticato e del tutto sconosciuto, se si eccettuano le luminose figure di Vincenzo Zitello e di Stefano Corsi.

Per una serie di ragioni, che sarebbe lungo esporre in questa sede, mi sono dedicato all’arpa celtica, e da allora essa si è indissolubilmente legata alla mia vita. Saltuariamente tengo ancora concerti d’organo e lavoro come compositore, ma tutte le mie energie sono volte verso questo strumento così affascinante, sia nell’aspetto didattico che in quello esecutivo.

Lasciando per molti anni totalmente da parte la sfera accademica, sono andato a studiare in Bretagna, in Irlanda ed in Scozia, e le sedi dei miei studi sono state tanto le Accademie come i pubs, le summer schools come le feste popolari, gli stages come le strade di Dublino.

Questa introduzione per inquadrare il contesto in cui è maturata la mia esperienza. Le considerazioni che necessariamente ne seguono forse non troveranno tutti d’accordo, ma non possono essere taciute. Eccole.

Innanzitutto: l’arpa classica e l’arpa celtica sono due strumenti assolutamente differenti.

Differente la tecnica, la posizione delle mani e del corpo, l’uso della forza muscolare. Differente l’appoggio sulle corde, l’uso degli abbellimenti, la velocità d’esecuzione. Differenti gli accenti che costituiscono il “motore” della propulsione ritmica, non corrispondenti agli accenti a cui siamo abituati (ed ecco perché spesso mi sento dire “ma quel brano, che io suono come te, non viene fuori come a te…”). Totalmente differente il repertorio e la sua interpretazione, che ovviamente è modellata sulle peculiarità tecniche dello strumento. Intendo dire che se suono una jig irlandese con la tecnica classica non potrà mai venire fuori una jig irlandese, al massimo una giga stile Corelli.

Credo che la diversità fra i due tipi di arpe sia ancora più marcata della diversità che può esserci fra un violino moderno e una viella medievale, o fra un pianoforte e una spinetta rinascimentale, con tutte le implicazioni interpretative che ne conseguono.

Un altro aspetto che considero essenziale è quello storico-sociale. Mentre posso suonare un concerto di Haendel per organo e orchestra senza necessariamente sapere perché, come e quando è stato composto, poiché esistono stereotipi comuni nella musica colta che portano a percezioni comuni, non posso fare lo stesso per un brano popolare, specie se inserito in una cultura in cui la musica, per motivi storici e politici, ha svolto un ruolo che la nostra musica non ha mai conosciuto, e di cui quindi non possiedo un bagaglio comune a cui riferirmi. Questo significa che ritengo indispensabile che l’allievo, il pubblico, l’ascoltatore (e prima ancora l’insegnante) conoscano la genesi e il contesto del brano che eseguo o insegno, perché possa appunto “essere contestualizzato”. Un mio collega insiste che “un Do è sempre e solo un Do, ed il compito del musicista è di suonarlo bene e basta”. Credo che sia una visione di una povertà assoluta. Qualcuno pensa che un bacio sia sempre e solo un bacio e il compito dell’amante sia solo darlo bene? A chi, come e quando lo do (e perché lo do) non ha importanza, vero?

Mi hanno colpito due osservazioni che si ripetono invariabilmente, quando suono l’arpa celtica davanti ad amiche arpiste “classiche”. La prima: “non riuscirei mai a suonare una danza a quella velocità!”, e la seconda “sembra che tu non sfiori neanche le corde e fai suonare l’arpa più forte di quanto faccia io con l’appoggio così solido che ho e di cui sono tanto fiera!”. Non sono un genio, solo un musicista. E invariabilmente spiego che possono imparare queste cose così stupefacenti anche loro in una settimana, e farle molto meglio di me. È semplicemente un’altra tecnica, finalizzata a un altro stile musicale. Del resto il discorso è speculare: io non potrei mai eseguire decentemente la più semplice delle composizioni per arpa classica.

Vorrei che ci fosse chiarezza su un aspetto che dovrebbe essere intuitivo ed evidentemente non lo è: se uso l’arpa celtica come propedeutica o surrogato dell’arpa classica ho tutto il diritto d’insegnare e di utilizzare la tecnica “canonica”. Ma devo chiarire ai miei allievi che non stanno imparando “l’arpa celtica”. Stanno imparando l’arpa classica e per motivi di dimensioni, di costo o di comodità usano un altro strumento. Se uso l’arpa celtica come “arpa celtica” devo insegnare lo stile e la tecnica corretti dello strumento. Non mi sembra un ragionamento così difficile.

Quali conclusioni ho tratto dalla mia esperienza che per gli strani giochi del destino è sicuramente unica, avendomi regalato 14 anni di “accademia” e 14 anni a tutt’oggi di “tradizione”, e la possibilità di confronti e integrazioni?

La prima considerazione è che trovo scorretto (a volte in buona fede, a volte in malafede) insegnare uno strumento e un repertorio che non si conoscono da parte di alcune persone che non si sono mai preoccupate di approfondirlo in modo serio e sistematico, il che non vuole dire uno stage di tre giorni o un week end in Bretagna.

Io ho una decente tecnica di organista. Ma la volta che mi sono fatto passare per clavicembalista sono stato svergognato e massacrato, a ragione. Non ho il tocco del clavicembalista, non ne ho l’articolazione. Non ho basi storico-organologiche. Le mie esecuzioni di Scarlatti sono scialbe e insapori. La lezione è stata utilissima, e vorrei facesse riflettere. Oggi i punti di riferimento si chiamano Grainne Hambly, Maire Ni Chathasaigh, Kim Robertson. Chi di noi lavora in Italia nel campo dell’arpa celtica non può non fare i conti con la loro preparazione sia tecnica sia storico-estetica, anche solo per onestà artistica.

La seconda è che trovo egualmente scorretta l’immagine “esoterica” dell’arpa celtica, che oggi va tanto di moda. Uno strumento con duemila anni di vita e mille di letteratura scritta, con un repertorio tradizionale di migliaia di brani censiti, con un significato così forte dal punto di vista sociale ancora ai nostri giorni, con delle peculiarità così… peculiari, non ha certo bisogno di atmosfere oniriche e di fraintendimenti. Lascio il ruolo di mago e di Druido a qualcun altro, io faccio il musicista al meglio delle mie possibilità e basta.

La terza è delicata, e vuole rispondere alle lettere che quasi giornalmente mi arrivano: “dove e come posso studiare l’arpa celtica?”.

Non conosco tutti coloro che in Italia hanno potuto “studiare sul campo”, entrare in un mondo non solo con le dita ma con il cuore e con la testa, assorbire stili e interpretazioni.

Quello che posso consigliare ai neofiti, e mi sembra il minimo, è avere le idee chiare nel momento in cui si cerca un insegnante. Visto che si paga, è corretto avere un servizio corrispondente alle promesse. Nel momento in cui un insegnante mi dice che mi insegnerà arpa celtica devo chiedere di farmi sentire cosa intende insegnarmi. Una jig, un reel, una hornpipe e una slow air sono secondo me una prova sufficiente, con le loro corrette accentazioni e velocità. Consiglio di ascoltare, magari registrare e poi confrontare con un’esecuzione “di riferimento”, eventualmente con un occhio ai nomi ricordati prima. Così so che cosa compro e se ne vale la pena.

Altra considerazione: la musica tradizionale irlandese ci è pervenuta solo come linea melodica, occorre saper “arrangiare” un brano, improvvisare l’accompagnamento, mettere gli accenti giusti nelle danze (che non corrispondono quasi mai con i tempi forti) e i respiri corretti nelle slow airs (che non corrispondono sempre alle cadenze ed alle cesure).

Quanti musicisti sanno improvvisare e sanno insegnare l’improvvisazione? Ma questa è davvero essenziale nella cultura popolare, pensate ai jazzisti che non leggono una nota e improvvisano un intero concerto o ai cantori popolari che tengono avvinto il pubblico di una piazza ricamando per un’ora sulla stessa melodia.

Nel corso che mi è stato affidato al Conservatorio di Castelfranco, uno degli insegnamenti obbligatori per i miei allievi di arpa celtica è stato “Improvvisazione”, con un monte-ore davvero cospicuo, eppure mai sufficiente. Un insegnante di strumento tradizionale deve insegnare queste cose, altrimenti tradisce sul nascere l’ambito culturale che promette di condividere con l’allievo.

In sintesi questo è il mio pensiero. Ho avuto modo di conoscere persone che non si sono preoccupate di discuterlo, come è giusto e lecito, ma semplicemente non hanno neanche fatto lo sforzo di comprenderlo. Molto probabilmente esiste gente che non riesce a capire che una carrozza a cavalli e una Ferrari non sono la stessa cosa, anche se entrambe hanno le ruote. E probabilmente queste persone guiderebbero la prima cercando l’acceleratore e la frizione.

Fortunatamente la stragrande maggioranza dei musicisti sono intelligenti e aperti. Ovviamente questa visione dovrebbe essere approfondita e ampliata; qualcosa in più c’è nelle differenti introduzioni dei miei libri e sul mio sito (www.enricoeuron.com). Ma l’ideale sarebbe una bella chiacchierata di persona con chi è interessato a questi argomenti, magari davanti a una pinta di Guinness. Fatevi avanti, non rifiuto mai una birra.


Questo articolo é stato pubblicato da
Enrico Euron www.enricoeuron.com