Eventi / Storia dell'arpa

Un incontro straordinario con Tullia Zevi

Un incontro straordinario con Tullia Zevi

 

di  Emanuela Degli Esposti

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Tullia Zevi con il Presidente della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi

La vita è come la storia: non è mai una linea retta, è piena di tornanti e talvolta si avviluppa su se stessa, ma c’è sempre una via d’uscita.”

Tullia Zevi

Nel 1992 il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro ha conferito a Tullia Zevi il titolo di “Cavaliere di Gran Croce”, la massima onorificenza italiana.

La vita di questa donna straordinaria si intreccia con la storia e con alcuni degli eventi più significativi del Novecento; inoltre, una parte di essa si rivela come una preziosa testimonianza per noi arpisti.

Nata a Milano il 2 febbraio 1919, Tullia Zevi frequentava il Conservatorio e il Liceo Classico quando vennero promulgate le leggi razziali del 1938 che la costrinsero a riparare insieme alla famiglia prima in Svizzera, poi in Francia. A Parigi riuscì a proseguire gli studi filosofici intrapresi alla Statale di Milano, iniziò ad interessarsi di politica e a stringere le prime amicizie con noti intellettuali antifascisti. Quando anche in Francia si preannunciava l’inizio della guerra, emigrò negli Stati Uniti, dove per mantenersi suonò professionalmente l’arpa, lo strumento che aveva studiato con Anita Terribili e Luigi Maurizio Tedeschi. In breve tempo fu ammessa alla Julliard School of Music, dove studiò con Marcel Grandjany, e in quegli anni conobbe Leonard Bernstein, col quale suonò nella New York City Simphony; inoltre lavorò intensamente come arpista nell’orchestra di Frank Sinatra e formò l’Orpheus Harp Quintet.

A New York intraprese anche la professione di giornalista pubblicando un bollettino dal titolo Italy against Fascism, che suscitò l’interesse della stampa liberale americana. Come segretaria di redazione e curatrice di una rubrica rivolta ai partigiani, lavorò alla NBC (National Broadcasting Corporation), nei programmi radiofonici a onde corte destinati all’Italia. Subito dopo la guerra fu inviata per tre mesi come corrispondente al processo di Norimberga. Per più di 30 anni collaborò con il giornale israeliano Maariv, con il settimanale londinese The Jewish Chronicle, con la Jewish Thelegraphic Agency e con il Religious News Service di New York. Nel 1961 le venne assegnato l’incarico di corrispondente al processo di Gerusalemme contro il criminale nazista Adolf Eichmann, un grande evento mediatico diffuso dalla televisione di tutto il mondo. Fu un’esperienza che descrive ancora oggi come la pagina più sconvolgente della sua vita.

Nel 1983 venne eletta presidente della Comunità Ebraica Italiana, unica donna ad aver mai assunto questa carica. Nel 1994 il Ministero dei Beni Culturali le ha assegnato la medaglia d’oro per il suo contributo all’educazione, all’arte e alla cultura e in seguito è stata invitata a far parte della Commissione per l’Interculturalismo del Ministero dell’Istruzione, della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul contingente italiano in Somalia, dell’UNESCO e del Comitato Nazionale per la Bioetica.

Nel corso della sua attività di giornalista ha intervistato diversi capi di stato e personalità di spicco della cultura e del mondo politico.

Nel 2007 la Rizzoli le ha pubblicato il libro Ti racconto la mia storia, dialogo tra nonna e nipote sull’Ebraismo, scritto insieme alla nipote Nathania: un prezioso testo storico–biografico scritto in forma di dialogo che contiene anche diverse fotografie che documentano gli incontri di Tullia Zevi con Golda Meir, re Hussein di Giordania, papa Paolo VI, Ferruccio Parri, Yitzhak Rabin, Chaim Herzog, Bettino Craxi, Yasser Arafat, Hillary Clinton, Sofia Loren, Rita Levi Montalcini, Romano Prodi.

Quando ho acquistato questo libro – che vi consiglio – non mi sarei mai immaginata, sfogliandolo, di trovarmi di fronte alla fotografia di una giovane Tullia Zevi arpista.

Mi sono sempre interessata alla storia dell’Ebraismo e alle testimonianze sull’Olocausto. Mio padre era tra i 40.000 Italiani che tra il settembre del 1943 e la primavera del 1945 furono deportati nei campi di concentramento nazisti. Inoltre mi sono recata varie volte in Israele, sia per motivi di studio che di lavoro. Le ragioni che avevano suscitato il mio interesse erano quindi ben altre, ma che gioia nello scoprire una testimonianza così significativa che riguardava proprio l’arpa!

Terminata quella lettura appassionante, ho pensato che avrei tanto voluto conoscere Tullia Zevi e mi è venuta l’idea di chiedere aiuto a Paola Tardiola, una cara amica arpista romana collaboratrice de In Chordis. Grazie a lei è stato possibile combinare l’incontro a Roma.*(nota di Paola Tardiola)

Tullia Zevi è stata molto gentile, disponibile e piacevolmente sorpresa.

Ho pensato di coinvolgere l’Associazione Italiana dell’Arpa, che si occupa attivamente di raccogliere documenti relativi alla storia dello strumento, e di pubblicare una parte del colloquio avuto con lei. Nel contempo è sorta spontanea la richiesta di inserire a pieno titolo il suo nome nella lista dei nostri soci onorari; una richiesta da lei accolta con entusiasmo.

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Un’immagine dell’incontro nella casa romana di Tullia zevi

da sinistra: Emanuela Degli Esposti, Tullia Zevi e Paola Tardiola.

 

 

 

Tullia Zevi ci riceve molto cordialmente, ci fa accomodare e, per introdurre la nostra registrazione dell’intervista, esclama un gioioso: “Non abbiamo segreti!”.

Iniziamo la nostra conversazione parlando del suo libro, in particolare dell’Olocausto e del processo contro Eichmann del 1961, che aveva seguito come corrispondente del giornale israeliano Maariv, e ci racconta:

 

È stata un’esperienza tremenda… sembrava… avete presenti le sacre rappresentazioni del Medioevo? Perché i sopravvissuti erano persone che non avevano mai parlato. Tornati in famiglia volevano cercare di dimenticare, non volevano gravare i loro cari delle loro sofferenze. Invece lì gli avvocati dissero loro: «Dovete parlare, perché è un dovere, e perché noi dobbiamo documentare se questo è un uomo e cosa può fare un uomo ad un altro uomo; dovete far capire cosa un regime dittatoriale può fare di un uomo: una macchina per ammazzare». E allora hanno cominciato a raccontare, ma erano cose che, vi assicuro, anche per i giornalisti come me, Ebrea fra l’altro, e sensibile, erano sconvolgenti. Quei testimoni soffrivano perché era come se si vergognassero di quello che altri uomini avevano fatto loro. Si vergognavano delle umiliazioni subite, di essere stati ridotti così. Ci sono stati tanti suicidi. È stata un’esperienza traumatizzante.

 

Nel libro, infatti, lei dice che non riusciva nemmeno a dormire durante il processo e vagava nei corridoi dell’albergo insieme agli altri giornalisti sconvolti, con la mente e il corpo che tornavano sempre a quell’aula.

 

Era allucinante. Questa gente raccontava cose tremende, era terribile! Eichmann disse che aveva obbedito agli ordini e che aveva fatto ciò che veniva richiesto. Non fece una dichiarazione di pentimento; ascoltava impassibile quei testimoni che provenivano dai quattro angoli della terra… Disse di credere in Dio e chissà in nome di quale divinità si inventò le camere a gas. E pensare che cose di questo genere continuano a succedere. Il meccanismo è sempre lo stesso: quando un uomo ha nelle mani il destino di un altro uomo, ne fa un pessimo uso. Non sempre, naturalmente. Ma quando uno può, se ha delle pulsioni sadiche le tira fuori.

 

Purtroppo ricordo anch’io i racconti di mio padre su quell’inferno…

(Tullia Zevi mi chiede i motivi per cui mio padre fu catturato e come riuscì a sopravvivere. Le racconto brevemente di Buchenwald e degli eccidi di Marzabotto, che colpirono duramente anche la famiglia di mia madre)

 

Ma come le è accaduto di suonare l’arpa?

 

Siamo poche arpiste al mondo, no?… e io non lo sono nemmeno più! Quando nacqui avevo le dita lunghissime, dita di ragno, e mio padre disse: “Suonerà l’arpa!”. Eravamo quattro figli, i primi due suonavano il piano, mia sorella suonava anche l’organo, io l’arpa e il più piccolo il violino. Mio nonno Davide strimpellava stupendamente il flauto e quando gli dicevano che non aveva voglia di lavorare, si chiudeva in camera a suonare…

 

Che tipo di arpa suonava?

 

Inizialmente mi avevano preso un’arpina in prestito, poi quando hanno visto che ci prendevo gusto, mio padre pensò di acquistare uno strumento da concerto. Gli avevano detto che le migliori arpe erano quelle tedesche: le Obermayer. Erano arpe robuste. Si diceva che le Erard non fossero più tanto buone e all’epoca non esistevano ancora le Salvi. Così si recò nella “tana del lupo” a Monaco di Baviera, sfidando per me la Germania nazista. «L’ho fatto giusto per amor tuo!», disse quando mi raccontò di averla acquistata dalle mani di un venditore che aveva la cimice appuntata sul petto (il distintivo nazista).

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Tullia Zevi a Milano con la sua Obermayer nel 1933

 

Si è quindi iscritta al Conservatorio di Milano?

 

A casa mia bisognava fare le cose sul serio.

 

Com’era il Maestro Tedeschi?

 

Non era un uomo simpatico. Era nervoso, scontento: proprio nevrastenico! Difatti io non gli andavo giù. Oltre a frequentare il Conservatorio, desideravo continuare il Ginnasio, quindi la mattina non potevo andare a lezione di arpa. In classe c’erano pochissimi allievi, così lui era costretto ad aspettarmi fino alle due del pomeriggio, anche se aveva finito di fare lezione agli altri. Non era tanto disponibile, era molto sgradevole. Suonava bene, era bravo, un buon professionista, ma non era un grande maestro. Così alla fine dovette dire a mia madre «io apprezzo la cultura», perché le avevo detto fermamente: «Va bene, vado al Conservatorio, ma non rinuncio al Liceo!». Eppure l’arpa diventò in seguito il mio pane

 

Con le leggi razziali emanate nel 1938 avete lasciato Milano. Nel libro lei dice che il fascismo si respirava ovunque: nella oppressione della libertà di stampa, nell’imbecillità delle massime gridate dal Duce, nel “voi” imposto nelle scuole… poi avevano iniziato a bruciare le Sinagoghe. Così avete riparato prima in Svizzera, poi in Francia e quindi in America. Come è riuscita a gestire lo strumento?

 

L’arpa non l’ho potuta suonare per un anno mentre studiavo filosofia alla Sorbona, poi me l’hanno spedita in America su una nave. Ho così potuto proseguire gli studi alla Julliard con Grandjany, un bravissimo maestro! Mi aveva rimesso alle cinque note… Lui aveva un modo straordinario di articolare le dita. Tirava fuori molta più voce dall’arpa di quanto io non avessi mai fatto e chiedeva di suonare in profondità. Le vesciche che faceva venire! Che mestiere duro l’arpa… che strumento ingrato…

 

Che lingua parlava con Grandjany?

 

Lui parlava un Inglese con un accento francese che faceva ridere… sembrava una caricatura. I miei compagni ridevano molto, perché quando facevo lezione parlavamo in Francese, una lingua che conoscevo benissimo. Ci prendeva così gusto che continuava a parlare in Francese alle lezioni successive degli Americani! Era una persona squisita… era sensibile, carino. Veniva da una famiglia della borghesia francese, molto gentile ed educata, all’antica. Aveva un figlio che però non studiava musica. Grandjany ci invitava tutti gli anni a una merenda, tutti gli allievi insieme per un tè. Io amavo soprattutto il repertorio del Settecento, mi pareva musica molto adatta all’arpa.

 

Il maestro Grandjany teneva molti concerti?

 

Non tanti, si dedicava soprattutto all’insegnamento. Aveva una buona classe: sette o otto allievi, metà uomini e metà donne.

 

Nel suo libro lei scrive che una volta giunta in America fece dell’arpa uno strumento di lavoro e che formò un quintetto d’arpe femminile , l’“Orpheus Harp Quintet”; come si svolgeva la vostra attività?

 

Suonavamo spesso nelle chiese. Ricordo che una volta in una chiesa protestante ci dissero: «Dovete mettere la tunica come i chierichetti protestanti». Così ci siamo vestite da angioloni e guardando la mia collega dissi: «Se sono ridicola come te, mi basta!». Iniziammo a sghignazzare, vestite come due chierichette… figuriamoci! Però, insomma, ci si divertiva. Era comunque una vita durissima perché andavamo in giro con un torpedone, una specie di autobus e il clima umido rovinava le arpe e spezzava le corde. Era un disastro ogni volta accordare. A volte le arpe restavano sotto la pioggia… la vita non era facile.

 

Ha conosciuto il maestro Toscanini?

 

Sì. Quando lavoravo alla NBC (National Broadcasting Corporation) andavo a seguire le prove. Una grande scuola di musica.

 

Era veramente così severo come raccontano le cronache?

 

Uh!… e le parolacce che diceva!

 

In Italiano?

 

In Parmigiano! Dio mio cosa usciva da quella bocca! Una volta si era arrabbiato moltissimo con un violinista e lo cacciò. Allora quello, uscendo – perché in America quando hanno la mosca al naso non si lasciano trattar male da nessuno – disse: «Nuts to you!», che significa «vai al diavolo» o «vaffan’ovo», e Toscanini che non capiva ancora bene l’Inglese gli rispose: «Too late to apologize!», cioè «troppo tardi per scusarsi». Che risate!

 

Ha conosciuto Harpo Marx?

 

Certo, e ricordo che suonava benissimo! Era un autodidatta, con quella faccia un po’ da invasato… L’arpa era molto usata nel soft Jazz .

 

Come fu la sua esperienza al cinema Paramount nell’orchestra di Frank Sinatra?

 

In America ho lavorato con Sinatra e nell’orchestra del geniale Leonard Bernstein. Si usava molto l’arpa anche nel Jazz. Ce l’hanno nel sangue, gli Americani, il Jazz; loro suonavano a orecchio e battendo il piede. Comunque c’era molta arpa nell’orchestra di Sinatra. Lui era molto gentile, però era difficile stare in orchestra… Stavi lì a contare quaranta, cinquanta battute, poi se sbagliavi un quarto di battuta: apriti cielo! E se sbagli si sente subito, perché l’accordo dell’arpa si sente! Tante volte l’attacco non te lo davano e se sbagliavi tutti ridevano. Pratica d’orchestra non ne avevo, poi la lettura a prima vista è un disastro sull’arpa, con tutti quei pedali… Io sono sempre stata un cane per la lettura a prima vista. I pianti di frustrazione che mi facevo! Perché sai, nessuno è nato imparato… Poi a casa c’erano i vicini che non volevano che suonassi. «Perché non ci lasci un po’ in pace?», dicevano. Pare che il suono dell’arpa sia penetrante, fastidiosissimo per chi non la suona. Una vita difficile.

 

 

Le davano le parti all’ultimo momento?

 

Sai, lì ci si abitua. In quelle orchestre suonavano anche a orecchio, senza guardare la parte. Io invece ero abituata scolasticamente a leggere la partitura. Però si fa «di necessità virtù». Una segretaria guadagnava 25 dollari la settimana, io arrivavo a 80–90 e quando si registrava si guadagnavano anche 200–250 dollari. I sindacalisti venivano a controllare che non si sfruttassero i musicisti. Erano molto precisi.

 

 

Nel suo libro racconta che un giorno uno degli uomini della scorta le portò una missiva speciale: «Frankie dice che sei molto carina», ma che l’ambasciata non ebbe riscontro da parte sua.

 

Ricordo che Sinatra aveva un grande fascino sulle ragazzine. Gli uscieri del Paramount cercavano di sequestrare i panini che loro nascondevano nelle calze e nel reggipetto, perché, una volta entrate, volevano restare a tutti gli spettacoli. Lui cantava tra un film e l’altro. Ricordo che davano un film con Veronica Lake dal titolo Ho sposato una strega. Sinatra era un fenomeno d’isterismo femminile. Le ragazze si vedevano il film due o tre volte pur di vedere lui, anche se sequestravano loro i panini e… le prendevano per fame. Eppure Frankie era un omarino, un sicilianino bruttissimo. Aveva solo una voce molto sensuale che faceva impazzire le ragazze. Noi facevamo quattro spettacoli e durante il film il palcoscenico mobile scendeva nel golfo mistico. Una volta, mentre stavo accordando, una ragazzina saltò fuori all’improvviso e mi accarezzò dicendo con lo sguardo estasiato: «Lascia che ti tocchi, perché tu sei vicina a lui».

 

Parallelamente alla sua attività musicale, lei ha iniziato a fare la giornalista e ad occuparsi di politica.

 

Si può dire che al giornalismo sono arrivata attraverso l’antifascismo, con l’esperienza fatta in una radio di New York, nei programmi a onde corte per l’Italia. Quando l’agenzia Religious News Service mi chiese di seguire i processi contro i capi nazisti al Tribunale alleato di Norimberga io accettai subito. Quello fu il mio primo incarico importante come giornalista.

 

 

Dopo il processo rientrò in Italia. Continuò a suonare?

 

Rientrai dopo lunghi anni e trovai un paese sconfitto e provato dalla guerra, devastato dalla fame e dalla miseria. Desideravo comunque completare almeno uno dei percorsi formativi iniziati. Abbandonai l’idea di laurearmi in Filosofia e decisi di concludere i miei studi al Conservatorio. Prima di lasciare il Paese avevo dato il “diplomino” (l’esame di settimo corso di arpa).

 

Quando studiava con Tedeschi?

 

Sì, e in commissione mi pare ci fosse Clelia Gatti Aldrovandi.

 

Come fu il suo diploma?

 

Ho dato il diploma soltanto perché volevo un titolo di studio, ma ero incinta all’ottavo mese, ho suonato praticamente restando in piedi! Si sono impietositi di me… col pancione. Tedeschi non c’era più, c’era, mi pare, la Gandolfi… simpatica. Si era un po’ insospettita, forse pensava «questa qui viene dall’America, chissà cosa vuol fare». Invece io volevo solo finire qualcosa e sono riuscita a conseguire il diploma, ma poi ho capito che non aveva senso continuare.

 

Smise di suonare?

 

Purtroppo l’arpa non è uno strumento indulgente… o la suoni, o la studi… poi ci metti due ore ad accordare… così ho mollato. L’arpa l’ho regalata a Ebe Marini, una brava arpista di Milano che aveva iniziato a studiare come me con Anita Terribili.

 

La sua prima insegnante?

 

Sì. Aveva un nome imponente, ma era una donna minuta e mite come un agnello! L’arpa l’ho ceduta a Ebe perché non aveva possibilità economiche. Era una Obermayer buonissima, anche se in America le si era squarciata la tavola. Le arpe europee non resistevano a quel clima, ho dovuto spendere parecchi soldi per risistemarla. La portai a una filiale della Lyon & Healy e mi fecero una tavola nuova. Le arpe americane erano molto resistenti, più adatte a quel clima, infatti hanno un vocione. Vanno suonate molto, e dopo un po’ si ammansiscono.

 

Quindi lasciò definitivamente lo strumento?

 

Sì, non mi sono sentita di ricominciare con l’arpa in Italia. Vivevo a Roma e avevo due figli, mia madre stava a Milano. Quando ci fu il congresso delle nuove comunità ebraiche che si erano ricostituite dopo la guerra ci fu un vecchio partigiano che si ricordò di me. Si chiamava Raffaele Cantoni. Era stato arrestato dai tedeschi e deportato, ma era riuscito a gettarsi dal treno che lo portava ad Auschwitz e si era rifugiato in Svizzera. Mi aveva conosciuta come giornalista e pensò di appoggiare la mia candidatura. Ricordo che girava tra i delegati e diceva: «Votate per Tullia! Ze’ na dona, ma capise tuto» (è una donna, ma capisce tutto). E allora, con quello slogan, mi hanno eletta.

 

Nel libro ho letto che Indro Montanelli la indicò come sua personale candidata alla presidenza della Repubblica.

 

Mi chiamava “la sua principessa”. L’arpa me la sono proprio dimenticata. Ho sentito qualche concerto. Ricordo Zabaleta che suonava come un giocoliere, bravissimo… L’arpa è uno strumento difficile. Ricordo che un collega disse che fare il giornalista è un mestieraccio; eppure io credo sia molto più difficile fare l’arpista.

 

Detto proprio da lei, ci fa onore.

 

Roma, 14 marzo 2009

 

Emanuela degli Esposti e Paola Tardiola ringraziano tutti coloro che hanno reso possibile questo incontro straordinario: la Sig.ra Silvia Tardiola per la disponibilità immediata, la Sig.ra Giovanna Micaglio Ben Amozegh per i suoi puntuali consigli conditi da ineguagliabile gentilezza, il Dott. Luca Zevi per le preziose indicazioni e la cordialità con cui ci ha introdotto dentro la propria famiglia. Infine la Sig.ra Tullia Zevi per averci accolto in casa sua con l’ospitalità che si riserva a due vecchie e care amiche.

 

 

(1) Nota di Paola Tardiola

Il 15 dicembre 2008, dopo la riunione dei collaboratori dell’Associazione Italiana dell’Arpa, avvenuta nei locali della libreria Odradek a Milano, mi è stato offerto un passaggio in auto allo scopo di raggiungere la stazione Centrale e salire sul primo treno utile per Roma. Ero in buona compagnia, infatti l’allievo di Emanuela degli Esposti,Giuliano Mattioli, che cortesemente si era prestato per il passaggio, caricava in auto anche Anna Pasetti, Cristiana Passerini e la stessa Emanuela. Avremmo viaggiato insieme fino a Bologna.

Durante il tragitto mi viene chiesto, data la mia origine romana, se mai avessi l’opportunità di mettermi sulle tracce di Tullia Zevi, residente anche lei a Roma nella zona del ghetto ebraico. Chiamo immediatamente al cellulare una docente delle scuole superiori, Romana anche lei, che da anni collabora col Dipartimento delle politiche educative e scolastiche del Comune di Roma e che, occupandosi prevalentemente della Shoah, è frequentemente in contatto con la Comunità ebraica di Roma. I miei compagni di viaggio ascoltano la risposta in diretta telefonica e in tempo reale, date le condizioni ambientali (l’abitacolo della vettura, piccolo e raccolto, e il volume notevolmente alto della voce della professoressa che rispondeva al mio cellulare) mostrando incredulità e sorpresa per la rapidità dell’operazione e l’efficienza del contatto.

Prima ancora di essere in Centrale, il problema sembrava davvero risolto.

Di nuovo a Roma, nelle settimane successive si susseguiranno numerosi i miei tentativi telefonici tesi a recuperare la persona contattata da Milano, che, però, risulteranno vani. Purtroppo, dopo il periodo natalizio, scoppia la guerra in Israele e le speranze di raggiungere la Sig.ra Zevi, sono sospese. Anche Emanuela Degli Esposti concorda con me, di rimanere in attesa.

Il 14 febbraio, appare sul sito la data e il luogo della riunione dell’Associazione Italiana dell’Arpa: 14 marzo 2009 presso il Museo degli strumenti all’Auditorium Parco della Musica. La riunione sarà a Roma: quale occasione migliore per combinare l’incontro con Tullia Zevi! La circostanza favoriva, inoltre, la possibilità di conferire alla signora Zevi il titolo di Socio Onorario dell’Associazione, a fianco dei nomi di personaggi del mondo internazionale dell’arpa, proprio lì, nei luoghi dove la Musica è di casa. Emanuela mi comunica la data della riunione con una mail personale e conta ancora sul mio aiuto. Con rammarico le devo comunicare che il contatto evita di rispondere ai miei appelli. Certo, il tempo era pochissimo. Il 26 febbraio, poi, avrei dovuto anche sostenere la Tesi del biennio specialistico di Musica da Camera.

Ma il bicchiere è sempre mezzo pieno!

Profondamente delusa dalle promesse disattese della docente,inizio una pausa di riflessione che mi aiuta ad individuare la soluzione, sempre stata molto più a portata di mano di quanto pensassi: mia sorella! Silvia Tardiola, più piccola di me di circa quattro anni, in 24 ore mi mette in contatto con la gentilissima signora Giovanna Micaglio Ben Amozegh che, d’ora in avanti, rappresenterà la maglia d’aggancio più preziosa. Solerte ed entusiasta, la signora Micaglio comunica alla signora Zevi il desiderio espresso dall’Associazione Italiana dell’Arpa di intervistarla, per conoscere il suo passato di musicista, e in particolare di arpista, quale testimonianza vivente del Novecento. La signora Zevi accoglie con enfasi ed emozione la proposta e invita la signora Micaglio a lasciarmi il numero di telefono della sua abitazione. Ricevuta la notizia, comunico a Emanuela Degli Esposti la successione dei fatti e il numero di casa della Zevi. Emozionata, ma lucida, prontamente lei la contatta. Inizia uno scambio intenso di colloqui telefonici. La signora Zevi non stava più nella pelle, e tutte e tre non vedevamo l’ora che arrivasse il 14 marzo 2009.

Alla vigilia della fatidica data, rimangono da affrontare i problemi tecnico–logistici. In un primo momento, la stessa signora Zevi ci proponeva di raggiungerla a casa sua il sabato sera oppure la domenica e offrirci, addirittura, un pranzo. Poi sembrò farsi strada l’idea di accompagnarla noi presso l’Auditorium, prelevandola a casa sua, poiché ci sembrava carino applaudirla in tanti. Chiamo di nuovo la signora Micaglio per capire come, quando e dove svolgere l’incontro e l’intervista. Mi suggerisce di mettermi in contatto col figlio della signora Zevi, Luca, al quale avrebbe lei anticipato una mia telefonata. Ottenuto l’ok, chiamo il Dott. Luca Zevi, col quale inizio un dialogo, direi affettuoso e cordiale. Anch’egli entusiasta, si fa interprete delle emozioni che la mamma avrebbe provato all’idea dell’incontro e aggiunge che, essendo molto anziana anche se in salute, la soluzione migliore era di considerare seriamente di raggiungere la signora Zevi a casa sua. D’accordo! Sabato 14 marzo 2009, ore 18.00 appuntamento a casa dell’arpista Tullia Zevi.

 

Con la collaborazione di Paola Tardiola


Questo articolo é stato pubblicato da
Redazione Redazione di IN CHORDIS, la rivista online dell'Associazione Italiana dell'Arpa.

Un commento su “Un incontro straordinario con Tullia Zevi

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